Il selfie? Conversazione, più che documentazione

Il ricercatore Nathan Jurgenson risponde a Sherry Turkle: condividiamo sempre più foto sui social media per parlare attraverso le immagini, piuttosto che per testimoniare ossessivamente i momenti più banali del nostro quotidiano

Recentemente abbiamo segnalato una riflessione a firma di Sherry Turkle, studiosa dei nuovi media, pubblicata sul NY Times. Nel commento si sostiene che la sempre maggiore tendenza a scattare e condividere foto di noi stessi, selfie il termine inglese di riferimento, va interpretata come un cambio di paradigma nel modo in cui le persone usano i social media: l’oggetto della conversazione si starebbe spostando dalle esperienze vissute a una sorta di ossessiva e incessante documentazione del nostro quotidiano, compiuta proprio a spese delle esperienze. Secondo la Turkle, ogni volta che condividiamo una nostra foto, ma anche quando mandiamo un messaggio di testo, è come se mettessimo in pausa noi stessi e le nostre azioni per documentare quel momento. Con la spiacevole conseguenza di ridurre progressivamente la quantità di tempo realmente vissuto, privilegiando l’accumulo di testimonianze fini a se stesse e perciò prive di reale valore.

A questa posizione ha risposto Nathan Jurgenson, a sua volta come la Turkle teorico dei social media. Lo ha fatto con un lungo post sul blog di Snapchat, una applicazione mobile per la condivisione istantanea di foto che si cancellano subito dopo essere state visualizzate dai destinatari. Il suo commento ribalta totalmente le posizioni della collega: quando condividiamo selfie – è la tesi di fondo – non abbiamo a che fare con foto in senso classico, caratterizzate da una certa eccezionalità e meritevoli di essere conservate. Piuttosto, usiamo quelle immagini per conversare: ce ne serviamo in sostituzione delle parole, per dire qualcosa che ha un preciso significato nell’immediato, ma magari non vogliono dire più nulla una volta terminata la conversazione. Secondo Jurgenson, la Turkle sbaglia insomma a pensare che i selfie siano foto di tipo tradizionale. Quelle venivano e vengono ancora oggi scattate per celebrare momenti significativi, ed essere conservate nel tempo a mò di testimonianze. Quando invece scambiamo un autoritratto fatto col cellulare, spesso e volentieri vorremmo semplicemente dire ad altri come ci sentiamo in un preciso momento. Conseguentemente, quella che la Turkle legge come una sorta di interruzione della conversazione e delle esperienze di vita vissuta, sarebbe semplicemente una prosecuzione della conversazione attraverso le immagini, in alternativa o in aggiunta alle parole.

“La Turkle focalizza la sua analisi sui selfie – scrive Jurgenson – sostenendo che stiamo barattando l’esperienza del momento con la sua documentazione. Ma i selfie non vanno interpretati come una sovrabbondanza di autoritratti. Si tratta piuttosto della condivisione di una esperienza. Li usiamo per dire chi siamo in un preciso momento, dove siamo e come ci sentiamo. E tutto ciò non è per nulla sorprendente né tantomeno antisociale.

Quasi sempre, i selfie non registrano qualcosa di eccezionale, ma esattamente l’opposto. Si concentrano sui tanti momenti che compongono e rendono vario il nostro quotidiano. Una foto perfetta di una spiaggia può avere un suo valore artistico, ma magari se usata come elemento di conversazione può essere estremamente noiosa. Cercando on line infatti, potremmo trovare tantissimi scatti simili o magari assolutamente identici. Al contrario, il selfie parla unicamente per noi. Nessun altro può scattarci un autoritratto: si tratta della nostra voce, qualcosa di molto intimo ed espressivo. È estremamente evocativo di un preciso momento, ed è esattamente quello che vogliamo condividere in quel momento”.

Approfondendo ulteriormente il ragionamento, Jurgenson invita anche a distinguere i social media per le finalità di utilizzo che ne sottendono la progettazione. La distinzione proposta è tra le piattaforme che si concentrano sui contenuti, e quelle che invece danno importanza primaria alla conversazione. Anche nelle prime si conversa – precisa lo studioso – ma lo scambio di idee e visioni riguarda contenuti ritenuti interessanti e meritevoli di condivisione. Il riferimento è alle foto delle nostre vacanze, alle canzoni, ai testi letterari o a qualunque altra cosa venga estrapolata dal quotidiano per essere posta all’attenzione dei nostri contatti. A questo tipo di canali, definiti “social media permanenti”, si contrapporrebbero quelli che Jurgenson definisce i “social media effimeri”, usati dalle persone per poter conversare in assenza. Tra questi viene incluso anche Snapchat, e non è quindi un caso che la sua riflessione sia stata pubblicata proprio sul blog di questa applicazione. “Sui social media effimeri – si legge nel testo – parliamo con le foto, piuttosto che delle foto”. Sarebbe insomma il contesto, frame il termine in inglese, a “fare la foto”, attribuendole un valore anziché un altro. E se non si tiene conto di ciò, per Jurgenson rischiamo di considerare alcune immagini, e le pratiche che portano alla loro condivisione, in maniera erronea o comunque distorta.

“Forse – si legge in chiusura della riflessione – il motivo per cui la gran parte dei  social media si è concentrata principalmente sui contenuti, sui media più che sui social, è perché i contenuti possono essere conservati. La socialità viene considerata al pari di materiale informativo che può essere indicizzato e trovato dai motori di ricerca. Le foto e tutto il resto sono registrate, catalogate e organizzate in profili che possono essere quantificati, tracciati e valutati. E tutto questo aveva estremamente senso fino a quando le persone hanno usato i personal computer per comunicare on line. Forse è stato proprio il boom degli smartphone, usati per comunicare più che per cercare informazioni, a rendere evidente il fatto che il mondo dei social media è stato concepito in maniera un po’ difettosa se la parola d’ordine deve essere social. So di concludere in maniera molto speculativa, ma è sicuramente giunto il momento di ripensare una socialità così fortemente basata sui contenuti multimediali.

Si può senz’altro capire perché questi contenuti sono ancora così attraenti e perché abbiamo ancora voglia di scattare foto perfette e condividerle. La band che state guardando nel momento migliore del loro concerto, il sole al tramonto, la famiglia riunita, l’incontro con un attore famoso: c’è ancora spazio per la foto importante, quella da conservare per sempre. Ma come spesso sostengo, gli universi dei social media permanenti ed effimeri non sono in opposizione: piuttosto sono complementari. E anche le foto scambiate con Snapchat possono essere artistiche.

Ma così come è facile capire l’importanza di alcuni momenti speciali, allo stesso modo non si dovrebbe sottostimare il valore di quelli banali. Chi studia i social media deve apprezzare la complessità di quello che può sembrare a prima vista futile (…) e riconoscere che il chiacchiericcio sui social compone la trama delle nostre esistenze: dirsi ciao, sorridere, apprezzarsi l’un l’altro, fare parlare i nostri volti, le nostre cose, i nostri umori, da quelli positivi ai più pessimi. I social media permanenti fanno fatica a catturare questi fondamentali momenti in maniera semplice e immediata. Ed è proprio in questo che invece eccellono i social media effimeri: sono costruiti per la comunicazione quotidiana, nella sua fugace, spesso divertente e comunque sempre importante natura. Costruiti non per catturare momenti come fossero trofei, i social media effimeri sono più familiari. Enfatizzano la socialità quotidiana, e questo è tutt’altro che banale”.

Valuta il sito

Non hai trovato quello che cerchi ?

Piè di pagina