I veri ribelli di Timbuktu

Internazionale ha tradotto un reportage americano sul salvataggio di migliaia di documenti storici da un incendio doloso. Una vicenda nella quale è stata determinante, suo malgrado, anche la conservazione digitale

All’inizio dello scorso anno, con due approfondimenti sul nostro sito (1 e 2), avevamo dato spazio alle vicende che avevano portato al salvataggio dei cosiddetti manoscritti del Sahara. Custoditi nella città di Timbuktu, nel Mali, si era inizialmente pensato che fossero andati distrutti a causa di un incendio appiccato da un gruppo jihadista, in ritirata dalla città dopo averla occupata per alcuni mesi. Fortunatamente, come si venne a sapere nei giorni successivi, l’incendio aveva però interessato solo una parte esigua di questa documentazione, risparmiando il grosso di quelli che vengono definiti come i “cimeli di un vero e proprio rinascimento africano”.

A più di un anno di distanza, il settimanale Internazionale è tornato sulla vicenda, traducendo in italiano il lungo reportage “The Real Rebels of Timbuktu”, firmato dal giornalista Patrick Simmes e pubblicato nel maggio scorso sul magazine americano Outside. L’articolo in inglese è tuttora leggibile on line, mentre per la sua traduzione in italiano, intitolata “I veri ribelli di Timbuctù”, occorre acquistare o consultare in altro modo il numero monografico sui reportage di viaggio, che Internazionale pubblica ormai come da tradizione nel mese di agosto.

La sue lettura è estremamente gradevole e avvincente, anche perché testimonia del profondo attaccamento alle lettere che contraddistingue la popolazione di Timbuktu. Un elemento fondamentale, a detta di Simmes, per un salvataggio compiuto con i più improbabili mezzi di fortuna, che ha per certi versi del miracoloso. Molto interessante è anche un piccolo passaggio dedicato ad alcuni progetti di digitalizzazione dei manoscritti avviati presso l’istituto Ahmed Baba, dove si era cominciato a raccogliere parte di questa storica documentazione – per lo più custodita presso abitazioni private – sia per finalità di studio, sia appunto per avviare la loro scannerizzazione e successiva conservazione informatica. È in questo istituto che le forze jihadiste hanno tentato di dare fuoco ai manoscritti. Ma l’elemento paradossale è che, proprio a causa di un’estrema lentezza nelle attività di digitalizzazione, vi hanno trovato, e purtroppo distrutto, molto meno di quanto avrebbero potuto trovare.

“L’istituto Ahmed Baba – si legge nella traduzione italiana di Internazionale – è stato fondato nel 1973, ma ha cominciato ad acquisire importanza solo nel 1984, quando Abdel Kader Haidara è stato nominato direttore. Haidara è stato il primo a mettere in contatto gli studiosi di testi antichi con le circa 65mila famiglie – tra cui la sua – che possiedono collezioni private di manoscritti. Come quasi tutti in città, Haidara ha preservato la sua biblioteca personale che, con circa 45mila esemplari, è la collezione più grande di Timbuctù.

Non si tratta solo di pile di vecchie carte: ci sono molte opere impreziosite da straordinari esempi di calligrafia araba, miniate in rosso e in blu, e decorate con arabeschi in foglia d’oro che compongono una sequenza infinita di volute, simbolo della natura eterna di dio. Nel 2000 il governo del Mali ha deciso di ampliare l’istituto e nel 2009 è stato inaugurato un nuovo edificio, con cinquanta dipendenti locali che hanno seguito una formazione su come conservare e digitalizzare i manoscritti.

Questi libri sono i “cimeli di un rinascimento africano”, spiega lo storico sudafricano Shamil Jeppie, direttore del Tombouctu manuscripts project dell’università di Città del Capo. Tra le carte di Timbuctù c’è di tutto: dai trattati di astrologia agli studi di zoologia, dalle mappe turche ai contratti di matrimonio ebraici, oltre a una miniera di documenti sulle carovane e il commercio del sale. Jeppie, uno dei pochi studiosi ad avere esaminato gli originali, ha scoperto testi di giurisprudenza e teologia, ma anche poesie, una storie del tè e due manuali erotici, che definisce “molto poco pratici”.

Nel 2012 l’istituto aveva digitalizzato solo duemila manoscritti. Non bastava metterli su uno scanner: la carta è molto fragile e l’inchiostro (una miscela di carbone e gomma arabica) rischia di prendere fuoco se è esposto al calore del raggio luminoso. Quando l’istituto è stato attaccato, questa lentezza si è rivelata una fortuna: rispetto alle decine di migliaia di manoscritti nelle mani dello stato, ce n’erano ancora centinaia di migliaia nascosti nelle case private in attesa di essere restaurati e digitalizzati. Gli abitanti di Timbuctù sono stati premiati per la loro prudenza”.

Una volta tanto quindi, una inefficace opera di conservazione digitale è stata il fortunoso presupposto per la salvaguardia di un patrimonio culturale di inestimabile valore. Preso per buono questo strano “incidente del destino”, non ci resta però che ribadire in chiusura le parole di Lucio Bragagnolo, giornalista della testata Apogeoline, con le quali avevamo concluso, a suo tempo, il secondo dei nostri approfondimenti sul rocambolesco salvataggio dei manoscritti del Sahara.

“Ora – scriveva Bragagnolo poco più di un anno fa – guardo con occhi diversi agli ebook e sono più attento alle notizie sulla digitalizzazione delle opere prodotte prima dell’era digitale. Auspico che la conoscenza sia in salvo dall’imperio di gente capace di bruciare libri, perché riprodotta in migliaia di copie, milioni di server, miliardi di apparecchi con una memoria locale. Chiunque entri in città domani”.

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