Faccine, cuori e concetti: le emoji entrano al MoMa

Il museo newyorchese ha acquisito il primo set di 176 “faccine” introdotto nel 1999 dall’operatore giapponese NTT DoCoMo. Un tributo ad uno dei linguaggi paradigmatici dell’era digitale che al tempo stesso affonda le radici nei codici di comunicazione più antichi in assoluto

Il Metropolitan Museum of Modern Art di New York (MoMa) ha acquisito nella propria collezione permanente il primo set originale di 176 emoji realizzato dall’operatore di telefonia mobile giapponese NTT DoCoMo nel 1999. Le emoji sono i segni pittografici oggi comunemente usati su tutti i sistemi di messaggistica istantanea e più in generale su canali digitali per comunicare qualsiasi cosa, a cominciare dalle emozioni. Al momento sono circa 2.000 quelle standardizzate, e proprio per rendere conto dell’estrema importanza di questo fenomeno nei sistemi di comunicazione contemporanea, il MoMa ha deciso di acquisire il primo “alfabeto visivo” che ha dato il via ad una piccola, grande rivoluzione.

A disegnarlo, quasi venti anni fa, fu il grafico Shigetaka Kurita: ogni icona era costuita da 12 pixel di larghezza per 12 di altezza, una risoluzione decisamente rudimentale rispetto a quelle attuali, così come decisamente basica era la tavolozza di colori utilizzata per la loro composizione: inizialmente in bianco e nero, nel giro di alcuni anni le emoji furono decorate anche in rosso, arancio, lilla, verde e blu. Rispetto alle emoji atttuali, la grandissima parte delle quali immediatamente intuitive, quelle acquisite dal MoMa non sempre comunicavano all’istante il proprio significato. Dallo strano ovale rosso completato in alto da tre trattini verticali, utilizzato per significare le famose terme naturali giapponesi, ad un amorfo pittograma lilla, scelto per rappresentare il concetto di arte, erano tanti i segni che oggi, in mancanza di una legenda esplicativa, sarebbe estremamente arduo riuscire a decodificare.

Ciononostante, quel primo set gettò le fondamenta per un linguaggio che ha ormai una vocazione universale, proponendo ad esempio i primi prototipi di faccine così come i cuori e acluni animali, quali cani e gatti, che ancora oggi rappresentano gli elementi primari e maggiormente diffusi di questo alfabeto. Per la loro realizzazione, il designer giapponese trasse ispirazione tra le altre cose dai manga, fenomeno estremamente popolare nella propria cultura, e dai sistemi iconici di comunicazione aziendale, anche perché uno dei motivi principali che portarono la NTT DoCoMo a proporre le emoji era quello di spingere le aziende a utilizzarle per conquistare nuovi clienti. Da ciò ad esempio la scelta di dotare il set di icone che simbolizzavano cibi, vestiti e altre categorie commerciali, con tanto di partnership avviate all’epoca con recensori di ristoranti e altre aziende, e il conseguente utilizzo di pittogrammi appartenenti ai loro sistemi di comunicazione visiva.

Da dicembre, il MoMa esporrà le 176 emoji facendo ricorso ad animazioni grafiche e altri sistemi di rappresentazione che prevedono anche la loro messa a confronto con le nuove generazioni di “faccine” attualmente in circolazione. Paola Antonelli, curatrice del dipartimento Architettura e Design del museo ha dichiarato che confida nell’acquisizione futura di ulteriori set di emoji. “Da un certo punto di vista – ha aggiunto – abbiamo acquisito un nuovo strumento di comunicazione. D’altro canto però, le emoji sono ideogrammi e rientrano per questo motivo tra i sistemi di comunicazione più antichi in assoluto. Adoro questa particolare connessione tra epoche così distanti tra loro”.

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