2 foto al minuto: benvenuti nell’era del “lifelogging”

Alex Hudson, firma della BBC, commenta il lancio sul mercato di una microcamera che scatta in automatico fino a 10.000 foto a settimana. Pietra tombale sulla privacy, si chiede, o nuova frontiera per documentare il presente?

La macchina fotografica in questione si chiama Memoto, ed è già stata oggetto recente della nostra attenzione, con la segnalazione di un articolo pubblicato sul New Yorker. Prodotta negli Stati Uniti, si tratta di uno strumento estremamente maneggevole, che è possibile indossare sui vestiti, grazie al quale si possono scattare fino a 4 Giga di foto al giorno, in automatico. Portandola con sé, è possibile documentare in pratica ogni momento della propria esistenza, dando sfogo a quella che Alex Hudson descrive come l’ultima tendenza, nonché la naturale estremizzazione, di un’era caratterizzata dalla produzione e dalla condivisione sempre più sfrenata di dati e informazioni. La tendenza si chiama “lifelogging”, spiega Hudson, e Memoto è solo uno dei tanti strumenti di ultimissima generazione appositamente progettati per metterla in pratica.

Nell’articolo si citano anche i Google Glasses, vale a dire gli occhiali “intelligenti” che la società americana sta per immettere sul mercato, e la SenseCam di Microsoft, anch’essa pronta a sedurre centinaia di migliaia di potenziali consumatori, esattamente come la Memoto, con la promessa di 2 foto al minuto. Si tratta di idee che provano a capitalizzare la volontà delle persone di condividere e conservare ogni singolo istante della loro vita, scrive Hudson. E se è vero che Memoto ha destato finora più attenzione anche in considerazione delle dimensioni estremamente ridotte (oltre che per il fatto di essere stata prodotta dopo una straordinaria campagna collettiva di fundraising su Kickstarter), occorre riconoscere a un livello più generale che sono tutte sintomatiche di un’era in cui, come dichiara alla BBC l’esperto di media Henry Jenkins, “l’osservazione di massa sta diventando un fenomeno globale e comunemente accettato”.

"Registriamo e condividiamo sempre più aspetti delle nostre esistenze – spiega Jenkins alla BBC – e solo Dio sa come si comporteranno gli storici di domani di fronte alla sterminata mole di informazioni frutto del lifelogging e di altri fenomeni di questo tipo. Abbiamo visto la nostra cultura farsi sempre più esibizionistica, ma allo stesso tempo notiamo come le persone vivano con crescente disagio a stretto contatto con tutta questa informazione. Si tratta di una tensione che tenderà a esplodere in maniera definitiva nel corso del prossimo decennio”.

E nell’attesa che tutti i nodi vengano al pettine, è già possibile intuire quali tra essi saranno i più critici e problematici. Primo tra tutto, scrive Hudson, la constatazione che se anche a un certo punto sceglieremo di spegnere le macchine e la smetteremo di condividere, avremo lasciato dietro di noi una scia di tracce indelebili. Che, ovviamente, pretenderanno di parlare per conto nostro.

“Mi sono interessato ad un ragazzino di 18 anni partendo da una ricerca casuale su Twitter – semplifica Hudson con un esempio pratico – e in meno di un’ora sono riuscito a risalire al suo numero di telefono, al codice postale della zona in cui vive, alla scuola che ha frequentato, a sue opinioni sulle discriminazioni di genere nonché di stampo omofobo, e perfino al club di golf che frequenta e agli handicap con cui gioca.

Quasi la metà dei teenager che hanno partecipato ad un sondaggio della BBC – prosegue il testo – ammette di avere condiviso on line cose di cui si è pentita, o conosce comunque persone che hanno avuto problemi di questo tipo. E relativamente a questa ‘ipercondivisione’, un terzo pensa che abbia danneggiato la propria reputazione”.

Ma non finisce qui, perché come se non bastasse, in uno scenario che Hudson non esista a definire orwelliano, l’ascesa prepotente di Memoto e delle sue sorelle schiude le porte ad un nuovo, inquietante vocabolo. Si tratta del termine “sousveillance”, sorta di ibrido francese per provare a immaginare una sorveglianza che piove dal basso, piuttosto che, come accaduto finora, solo dall’alto. E se anche si può dare un minimo credito alla tesi del produttore di Memoto, secondo il quale finalmente disporremo di strumenti in grado di raccontare le nostre verità individuali in risposta a quelle ufficiali e istituzionali, occorre riconoscere con Hudson che una simile deriva è irta di rischi e aspetti inquietanti. Già in occasione dei recenti attentati di Boston, si legge nella news, si è assistito all’ambivalenza intrinseca che si accompagna a queste nuove pratiche. Ma è solo nel lungo periodo, conclude, che si potranno realmente capire gli effetti di una normalità nella quale tutti filmano tutti. E nessuno, probabilmente, potrà vivere la propria esistenza senza la sensazione di essere costantemente sotto gli occhi di centinaia di migliaia di riflettori always on.

“I difensori della privacy pensano che una simile tendenza possa portare a modificare l’oggetto stesso di quanto sarà documentato e registrato – si legge nell’articolo – perché le persone sapranno di essere osservate. ‘Potremo essere marchiati a vita dalle nostre impronte digitali – dichiara l’attivista Sarah Downey – tutti noi aspiriamo all’eternità, e ora potremmo facilmente arrivarci grazie ai dati. Ma senza privacy non potremmo vivere una vita realmente piena, perché tenderemo a evitare quegli aspetti che in futuro potrebbero essere censurati, anche solo se si tratta di esperimenti nei quali rischiamo di fallire. Le persone si comportano differentemente quando sanno di essere osservate. A quel punto infatti, cominciano a controllarsi e a censurarsi in prima persona”.

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