Net Art, quando la conservazione diventa un dilemma

Cosa vuol dire restaurare un’opera nativa in digitale? Restituirle il look and feel originario, compromettendone la fruizione con i nuovi device, o aggiornarla al presente, sacrificandone l’aspetto? Alla domanda, sempre più attuale, il NY Times dedica una storia con doppio lieto fine

Per quanto le tecniche siano potute cambiare nel corso del tempo, il mestiere del restauratore è sempre stato animato dallo stesso imperativo: intervenire sulle opere, contrastando l’usura del tempo, per renderle il più possibile fedeli al loro aspetto originario. Tutto questo fino a quando gli artisti hanno lavorato sui materiali fisici per esprimere la propria creatività. Ma cosa accade quando la produzione artistica viene declinata in digitale? E come si fa a riprodurre la fedeltà di un’opera fatta di bit quando i contesti di fruizione informatici cambiano molto velocemente e sono soggetti a rapida obsolescenza? Alla domanda ha provato a rispondere di recente il New York Times, prendendo spunto da una storia che la dice lunga su quanto anche questa disciplina sia tutt’altro che immune dalla rivoluzione digitale in atto.

Protagonista della storia è il Whitney Museum of American Art, che ha sede a New York, e che nel 1995 fu il primo museo ad acquisire un’opera nativa su Internet. Il lavoro in questione si intitolava “The World’s First Collaborative Sentence”, era frutto dell’ingegno dell’artista Douglas Davis, oggi 80enne, e funzionava come un vero e proprio blog ante-litteram, permettendo ai fruitori dell’opera di aggiungere commenti ad un impianto testuale di base. Un blog anche di discreto successo, se si considera che dal 1994 al 2000 furono circa 2.000 i commenti aggiunti in calce all’opera da ogni angolo del mondo, a testimonianza di un lavoro che aveva colto benissimo nel segno puntando su quella interattività che stava facendo letteralmente esplodere il fenomeno Internet.

Ma se i concetti che avevano ispirato il lavoro di Davis sono tuttora attualissimi, per quanto riguarda la tecnologia su cui si basava, i problemi di usura sono cominciati ben presto, e sono venuti definitivamente al pettine lo scorso anno. Dopo un cambio di server infatti, lo staff del museo ha provato a resuscitare l’opera, ma si è subito reso conto che qualcosa non tornava. I browser che avrebbero dovuto riprodurla continuavano ad andare in crash – si legge nell’articolo – i link originari non funzionavano più, e per leggere tutto il lavoro occorreva sottoporsi ad uno scrolling infinito, per lunga infarcito da lunghe stringhe di testo incomprensibili. Era assolutamente lampante che il lavoro di Davis necessitasse di un robusto lavoro di restauro, ma è proprio qui che sono cominciati i grattacapi più seri. Perché se è a suo modo acquisito, per quanto molto problematico, che le tecnologie digitali impongono interventi frequenti e complessi sia sulle opere sia sugli hardware e i software che ne permettono la fruizione, su una questione filosofica di fondo c’è molta meno chiarezza. E la questione ha che fare con che cosa voglia dire realmente restaurare un’opera d’arte digitale. Un conto è infatti parlare di un quadro, per il quale le modalità di fruizione sono praticamente le stesse dall’invenzione del disegno ad oggi; ben altro lo è parlare di arte fatta di bit che, se riprodotta così come creata in partenza, potrebbe non avere più niente da dire una volta fruita con macchine e software radicalmente diversi da quelli che l’avevano generata. Nell’articolo il dilemma viene evidenziato con un esempio: “se avessimo lasciato i link nella loro forma originaria – afferma uno dei curatori del museo – avremmo restituito un elenco di collegamenti rotti. Così facendo avremmo potuto magari testimoniare della rapida obsolescenza del web, ma al tempo stesso impedito di fruire l’opera nella sua integrità originaria”.

E il punto è proprio questo: cosa salvare di un’opera digitale? L’aspetto di partenza o il messaggio, posto che nell’era dei computer e di Internet la rapidissima evoluzione dei supporti non sempre permette di tenere legati i due elementi? Per quanto riguarda il Whitney Museum of American Art e il lavoro di Davis, informa il Times, alla fine si è scelto di non scegliere, realizzando due versioni dell’opera. La prima, obbedendo a quello che si potrebbe definire come un approccio classico del restauro, riproduce di fatto il look and feel originario del lavoro, con tanto di codici non più funzionanti, pagine formattate in maniera bizzarra, e addirittura le istruzioni rivolte agli utenti interessati a inviare i propri commenti via fax. L’unico intervento correttivo, davvero minimo ma allo stesso tempo fondamentale, è stato l’indirizzamento dei link alle pagine dell’Internet Archive che custodiscono quei siti e risorse non più presenti nel web attuale. Il secondo intervento invece ha di fatto tradotto il lavoro di Davis nelle forme e nei linguaggi attuali. A dire il vero, a guardare questa nuova opera si fa anche fatica a capirlo immediatamente. L’aspetto resta infatti sostanzialmente simile a quello originario, ma ad un esame minimamente approfondito si scopre che il lavoro presenta nuovi link, così come che i navigatori non possono intervenire sull’opera originaria. Possono farlo però sulla nuova riproduzione (per quanto non via fax si scherza nell’articolo), ed è anche per questo che i curatori del museo l’hanno chiamata “live version”. Inoltre e infine, per permetterne una sorta di restauro permanente, sono stati anche rilasciati i codici del lavoro in formato open source: chiunque interessato potrà contribuire d’ora in avanti alla manutenzione.

Trascendendo la singolarità di questa vicenda, l’articolo del Times sottolinea in chiusura che i musei, gli archivi e le altre istituzioni della conservazione saranno sempre più chiamati a fare i conti con problemi di questo genere. Non a caso, si legge nel testo, sono diversi i progetti e le iniziative promossi negli ultimi dieci anni per cominciare a farvi fronte, dal consorzio Matters in Media Art, promosso su impulso della Tate Modern di Londra e dei Moma di New York e San Francisco, al progetto Variable Network, curato dalla fondazione Guggenheim e dalla Daniel Langlois Foundation for Art, Science and Technology. “Per le istituzioni che hanno cominciato fin da subito a interessarsi alla Net-Art – conclude un’archivista digitale consultata nell’articolo – gran parte dei primi lavori è ora a rischio di evanescenza. E la proliferazione della cultura on line, dei social media, dei gadget smart e di qualsiasi altra cosa si accompagnerà a questa rivoluzione renderà sempre più complessa, certamente non meno, la conservazione di creazioni e di momenti visionari come questi”.

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