Fisici versus digitali: il diverso peso delle materie di cui sono fatti i ricordi

Bill LeFurgy torna a interrogarsi sulle profonde differenze con cui ci relazioniamo emotivamente agli oggetti fisici o virtuali: anche per ricordare, sostiene su The Signal, i primi continuano ad avere un potere di evocazione decisamente superiore

Per chi non ne avesse già sentito parlare, (difficile se si frequenta con un minimo di regolarità questo sito), Bill LeFurgy è stato uno dei pionieri della conservazione digitale, e il passato prossimo è forse quanto mai attuale visto che – come si apprende da un suo recente articolo pubblicato sul blog The Signal della Library of Congress – dal prossimo 7 marzo andrà in pensione. L’esperto ce ne mette a conoscenza non tanto perché sia già giunto il momento dei commiati, ma perché è proprio da un episodio legato a questo importante passaggio che è tornata ad agitarsi in lui una domanda su cui si interroga da tempo, e sulla quale ha costruito quello che potremmo definire una specie di “filone narrativo” (qui un “episodio recente” della “serie”). La domanda è la seguente: perché continuiamo a essere così legati agli oggetti fisici, siano essi libri, fotografie o vinili, mentre pur essendo ormai a pieno titolo nell’era di Internet, fatichiamo a stabilire connessioni emotive altrettanto forti con i contenuti digitali?

La domanda LeFurgy è tornato a porsela mentre impacchettava le proprie cose in ufficio, proprio in vista del pensionamento. Nel farlo, si è imbattuto in un poster del 1986: realizzato su iniziativa sua e di un gruppo di colleghi allora in forze alla National Archives and Records Administration, rappresentava uno dei primi tentativi di sensibilizzare gli impiegati alle prese con la prima ondata di office automation, sulla necessità di produrre documenti informatici che potessero essere preservati e tramandati nel tempo. Non certo un capolavoro dal punto di vista grafico – ammette LeFurgy – ma sicuramente uno strumento utile nel suo piccolo, e soprattutto in grado di scatenare, a trent’anni di distanza, una piacevole ondata di ricordi legati a un periodo ricco di speranze, stimoli e soddisfazioni professionali nonché relazionali. Non è quindi per caso se quel poster è rimasto per anni nel vecchio ufficio dell’esperto, e poi è passato in quello nuovo alla Library of Congress: “oggetti come questo – scrive – ci permettono di attribuire un senso alle nostre vite”.

“Ma c’è una differenza – continua subito dopo – tra le memorie fisiche e quelle digtali?”. E come già sappiamo, la sua risposta è sì. “C’è qualcosa di scivoloso e inquietante quando usiamo i contenuti digitali come gettoni per alimentare la nostra macchina dei ricordi”, scrive a riguardo, molto probabilmente anche per il loro carattere intrinsecamente “nascosto”. Un poster o una foto su pellicola rimangono infatti attaccati ad una parete e per questo costantemente a portata del nostro sguardo; gli scatti digitali risiedono invece in una macchina o magari on line, da qualche parte. Lontani dagli occhi, lontani dal cuore, verrebbe da aggiungere. Siamo insomma in presenza di tutta una serie di filtri che inevitabilmente tendono a smorzare, se non proprio spegnere le emozioni; e come se non bastasse – prosegue il ragionamento – mentre una stampa di solito resta un esemplare unico progressivamente modellato dal tempo, degli oggetti digitali si possono fare centinaia di copie, alcune identiche, altre anche modificate, con buona pace dei concetti di unicità e autenticità.

“Pensiamo a questa foto che risale al 2005 – prosegue il ragionamento – mostra un gruppo di persone con cui lavoravo al tempo, ed è uno scatto che scatena tantissimi ricordi, molti dei quali rimasti sopiti per anni nella mia memoria. La cosa interessante è che la foto è al tempo stesso più ma anche meno suggestiva rispetto al poster. È più evocativa, nel senso che mi permette di riaccendere all’istante dettagli e associazioni che pensavo fossero andati persi per sempre. Ma è meno evocativa per lo stesso motivo: sulla sua superficie di pixel, non si scorge nessuna patina lasciata dagli anni, e tutto questo ne smorza qualsiasi significato emozionale. Sembra quasi sia appena balzata fuori da una sorta di buco spazio-temporale”.

Partendo dal poster, LeFurgy cita quindi altri oggetti che ha accumulato nel tempo e gli permettono di ripercorrere il proprio percorso professionale e umano sul filo istantaneo delle emozioni. Da una pietra raccolta su una spiaggia dell’Oregon, a un frammento della Bibbia, l’esperto riconosce di averli sempre tenuti con sé, in bella vista, quasi fossero una conferma tangibile della propria esistenza. Lo stesso invece non è mai avvenuto, né probabilmente mai avverrà, con i file informatici. E a ben vedere è una cosa che potrebbe apparire paradossale per chi ha speso la propria vita professionale ad affermare l’importanza fondamentale di preservare la nostra memoria digitale. Forse però – come ammette lui stesso – è solo questione di tempo ed abitudini, e un giorno tutti noi saremo in grado di stabilire una più forte connessione emotiva con quanto immagazzinato nei nostri hard disk o su cloud.

“Una volta in pensione – conclude LeFurgy – forse troverò il modo lucidare più smesso le mie memorie digitali, e magari costruire un legame più saldo con esse. Nel frattempo, una cosa è certa: quel vecchio, bizzarro poster finirà dritto sulla parete del mio nuovo studio casalingo”.

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