Digitalizzare la storia oppure no? Ai posteri...

Le istituzioni culturali spendono sempre più fondi per digitalizzare contenuti non sempre divulgabili on line. Una giornalista olandese si è chiesta se ne vale la pena, non tralasciando di sottolineare però quanto sia importante conservare questi patrimoni per le future generazioni

Sono in costante aumento e sempre più se ne parla, non solo tra gli addetti ai lavori. Ma ha senso che le istituzioni della conservazione investano così tanto per la digitalizzazione e la fornitura on line di contenuti a carattere culturale, a cominciare dagli audiovisivi? La domanda se l’è posta di recente la giovane free lance olandese Tina Amirtha, autrice dell’inchiesta “The Trouble Witht Digitizing History”, pubblicata sul sito Fast Company.

L’inchiesta ha un punto di partenza, il Sound and Vision Institute dei Paesi Bassi. Assieme ad altre istituzioni pubbliche olandesi, l’istituto è reduce da 7 anni di lavoro, e 202 milioni di dollari di investimenti, che hanno fruttato la digitalizzazione di 138.932 ore di film e altri documenti video, 310.566 ore di registrazioni audio e 2.418.872 foto. Un’operazione imponente, “di livello mondiale” come ha avuto modo di dire il fondatore e gestore dell’Internet Archive Brewster Kahle quando in marzo è volato in Olanda per “battezzare” il progetto. Eppure un’operazione i cui effettivi ritorni sono tutt’altro che scontati. Nonostante questo enorme sforzo – scrive la Amirtha – appena il 2,3% di questo enorme archivio digitale è accessibile on line. Vero che sul sito dell’istituto, per i soli ricercatori e studenti, la quota sale al 15%. Ma per il restante materiale, gli amministratori devono di volta in volta chiedere il permesso ai detentori dei diritti d’autore, impegnandosi talvolta in estenuanti tira e molla legali, anche solo per far uscire le copie digitali delle clip dall’edificio.

“È vero, i formati digitali possono avere un loro valore, ma quanto può effettivamente valere la copia digitale di un vecchio notiziario televisivo?”. La domanda provocatoria se la pone Tom de Smet, capo degli archivisti dell’istituto. Ma per quanto possa apparire banale e scontata, è la stessa contro la quale si stanno infrangendo le ambizioni di tanti altri professionisti della conservazione alle prese con progetti analoghi. Alla Library of Congress degli Stati Uniti, seconda tappa dell’inchiesta, ci si arrovella ad esempio da tempo sullo stesso quesito. “Le case discografiche vogliono rassicurazioni sul fatto che non pubblicheremo mai on line brani di Louis Armstrong", spiega Gene DeAnna, tra i principali artefici del progetto National Jukebox. "Però – prosegue – ci sono alcuni B-side di artisti come Bing Crosby e altri materiali che potremmo diffondere se realmente non hanno intenzione di pubblicarli".

Ma è proprio quel se che fa tutta la differenza tra volere e potere. Certo, in alcuni casi si raggiungono accordi, come capitato alla stessa Library Of Congress con la Sony per una considerevole collezione di materiali registrati tra il 1901 e il 1925. Resta però che il copyright limita estremamente la “potenza di fuoco” dei tanti progetti di digitalizzazione in atto. Talmente tanto, tornando alle considerazioni di Tom de Smet, che forse vale davvero la pena chiedersi “se ha senso digitalizzare qualsiasi cosa”. “Ti domandi, perché lo stai facendo – spiega alla giovane giornalista – e a volte ti rispondi onestamente che solo una piccola parte dei nostri fondi dovrebbe essere dedicata alla digitalizzazione dei contenuti. Il grosso dovrebbe continuare ad andare alle attività di conservazione digitale”.

Tutto ciò anche in considerazione del fatto che i diritti di proprietà intellettuale sono solo uno dei problemi. Una volta pronte per essere caricate on line, le clip audio e video devono essere effettivamente rintracciabili. E nell’era di YouTube e Spotify, è tutt’altro che scontato che i siti di istituzioni pubbliche possano attrarre masse considerevoli di visitatori. Entrare in competizione non avrebbe nessun senso, ma da questo punto di vista sia in Olanda sia dall’altra parte dell’oceano, per citare i soli due casi oggetto dell’articolo, hanno pensato bene di non farlo. È vero che si dispone di siti e canali YouTube sui quali sono stati pubblicati parte dei contenuti digitalizzati, ma entrambe le istituzioni si considerano anche e soprattutto come preziosi serbatoi liberamente disponibili per progetti di divulgazione massiva quale Wikimedia Commons o l’American Archive of Public Broadcasting, nato da una collaborazione con tutte le emittenti radiofoniche pubbliche degli Stati Uniti.

Le istituzioni della conservazione non sono insomma al lavoro per centralizzare e fornire tutta la memoria digitale nei propri portali. Anche perché la loro mission non è fare audience, quanto piuttosto prendersi cura di pezzi del nostro passato secondo prassi e modalità distanti anni luce del modus operandi di giganti come Google. “Siamo la biblioteca nazionale – spiega Gene DeAnna – trasmettiamo un senso di sicurezza, una lunga storia di qualità, integrità dei dati e capacità di catalogazione. Lavoriamo per rendere i contenuti più longevi, come forma di impegno nei confronti delle prossime generazioni, piuttosto che per pubblicarli on line su un sito web. E non importa quanto le altre piattaforme possano essere ben fatte, sicuramente non avranno le capacità che ha la Library of Congress”.

Non per la gloria presente, ma per i posteri insomma. Per questo vale la pena impegnarsi in progetti di digitalizzazione come quelli oggetto dell’attenzione di Tina Amirtha. E per questo, almeno in parte, alla domanda se abbia senso o meno imbarcarsi in simili iniziative non si può che rispondere in maniera affermativa. In fondo, pur essendo per altri versi dubbioso, ne sembra convinto anche il capo archivista dell’istituto olandese. “Crede che la digitalizzazione non proietterà come d’incanto le istituzioni della memoria nella contemporaneità – si legge nell’articolo – ma è senz’altro convinto che si compiranno grandi passi da gigante, grazie a questi progetti, nel miglioramento dei metodi per la conservazione dei contenuti digitali”.

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