Conservare l’hardware o emulare? In America se ne discute

Le due scuole di pensiero sono state oggetto di recente attenzione sul blog The Signal della Library of Congress. Alle ragioni di chi evidenzia le difficoltà materiali di accumulare e tenere in vita vecchi device, si oppongono quelle di chi li ritiene indispensabili per ricostruire integralmente le esperienze d’uso del passato

Il dibattito, anche se in realtà le posizioni sono molto più sfumate di quanto si possa immaginare, è stato innescato dall’evento “Preserving.exe: Toward a National Strategy for Preserving Software”, organizzato di recente su impulso della Library of Congress, e dedicato tra le altre cose anche al tema della conservazione dei supporti hardware necessari per il funzionamento di vecchi contenuti multimediali, a cominciare dai videogiochi.

Prima a intervenire, l’esperta di conservazione digitale Leslie Johnston, con un articolo nel quale confessa come la partecipazione all’iniziativa abbia di fatto modificato le sue opinioni in materia. Da convinta sostenitrice dell’importanza di conservare e manutenere il maggiore numero possibile di strumenti e apparecchiature hardware, la Johnston ha infatti improvvisamente abbracciato la causa dell’emulazione – intesa come la possibilità di far funzionare vecchi software necessari alla lettura di alcuni contenuti sulle macchine attualmente in circolazione – partendo da due evidenze. La prima è che diversi progetti ed esperienze presentati in occasione dell’evento dimostrano i notevoli progressi compiuti da questa disciplina nell’ultimo periodo; mentre la seconda, frutto anch’essa di numerose testimonianze in materia, è che esistono evidenti limiti oggettivi alla possibilità di accumulare e tenere in vita centinaia e centinaia di apparecchiature e strumenti informatici.

Ben venga dunque che ci siano alcune istituzioni e strutture specificamente dedicate a questi compiti, sostiene l’esperta in estrema sintesi, ma per il resto si punti con decisione sull’emulazione, in virtù della maggiore sostenibilità che si accompagna a questo tipo di pratiche.

“Non possiamo trasformare tutte le nostre strutture in musei dell’hardware – si legge a riguardo – ci sono diverse organizzazioni (…) che perseguono questo scopo ottimamente. E non cambia la mia idea che anche l’hardware debba essere collezionato e preservato nel tempo. Stiamo parlando di oggetti che hanno segnato la storia dell’informatica e del disegno industriale, senza contare che sono stati parte importante delle nostre esistenze. Quando mettiamo in mostra i pezzi di informatica vintage in occasione dei nostri eventi sulla conservazione digitale, le persone sono sempre molto attratte: si tratta di esche formidabili per far venire fuori tante storie personali, e rendere molto più efficaci e concreti i messaggi che cerchiamo di lanciare sull’importanza di gestire i propri file. Tutti questi aspetti mi spingono ad essere ancora una sostenitrice della necessità di conservare l’hardware, ma per quanto riguarda la sua presunta superiorità sull’emulazione, dopo l’ultima conferenza le mie opinioni in materia sono radicalmente cambiate”.

Curiosamente, e quasi paradossalmente, la stessa conferenza ha modificato anche le idee a riguardo dell’altro esperto di conservazione digitale intervenuto nel dibattito, ma in senso diametralmente opposto. Il soggetto in questione è il “decano” Bill LeFurgy, a sua volta trasformatosi da fervente sostenitore dell’emulazione in avvocato dell’hardware vintage. Perché, ed è questo il succo della sua risposta alla Johnston su The Signal, “il codice è solo una parte della storia”. Se è vero infatti che l’emulazione permette ormai in molti casi di riportare in vita i software e i videogame del passato, sostiene LeFurgy, e se è innegabile che accumulare device tecnologici è un’impresa tutt’altro che facile, occorre riconoscere anche che per ricostruire integralmente le esperienze d’uso del passato, gli artefatti fisici sono tutt’altro che un dettaglio. Per restituire il senso di cosa significasse giocare ai videogiochi negli anni ’80 o magari ancora prima, è la sua posizione, non basta limitarsi a riprodurre ciò che si animava all’interno degli schermi, ma quando possibile occorre ricostruire anche quegli ambienti che facevano da cornice agli schermi.

“Anche se l’emulazione soddisfa la gran parte degli scopi di conservazione delle istituzioni culturali – si legge nel suo intervento – è innegabile che dalle esperienze d’uso dei contenuti digitali del passato si possono apprendere cose che trascendono i soli codici. L’hardware originale permette di ricreare in maniera molto più ricca quelle esperienze d’uso. L’emulazione del gioco K.C. Munchkin! su textfiles.com è ad esempio eccellente, ma non basta per rendere l’idea di cosa volesse dire nel 1981 giocare a questo titolo, collegando la consolle Magnavox Odissey, dotata di controller davvero goffi e ingombranti, ai televisori dei propri soggiorni. Si tratta di una differenza magari insignificante per molti scopi, ed è innegabile che l’emulazione sia una cosa magnifica, ma chiunque sia interessato alla ricostruzione dei contesti d’uso dei software del passato ha sicuramente intenzione anche di capire il modo in cui questi programmi si innestavano fisicamente nelle nostre esistenze.

So bene – prosegue LeFurgy – che le biblioteche e gli archivi non possono trasformarsi un musei del computer. Lo sostengo da 25 anni in pubblico, e continuo a farlo oggi, ma forse con un pizzico di entusiasmo in meno (…). I progetti di conservazione dell’hardware che ho potuto ammirare all’evento Preserving.exe – e per hardware non mi riferisco solo a vecchi computer, ma anche a modem, controller, connettori, tastiere, dischi esterni, schermi a bassa risoluzione e consolle – mi hanno fatto pensare che salvare il codice è solo una parte della storia. Nick Montfort, direttore del Trope Tank al MIT, forse lo ha riassunto ancora meglio: dove possibile, ben vengano sia l’emulazione sia l’hardware originale.

E se è vero che definire quel ‘dove possibile’ è tutt’altro che semplice, penso che archivi e biblioteche dovrebbero prendere in considerazione l’idea di acquistare in maniera selettiva piccole quantità dei vecchi device, concentrandosi in particolar modo sulle piattaforme maggiormente in uso in passato. Al momento questi oggetti sono ancora abbastanza facilmente accessibili, ma non sarà così per sempre, e col tempo credo che sarà sempre più difficile e costoso entrarne in possesso. Ugualmente, sarà necessario tenere in vita le conoscenze tacite utili per farli funzionare, e anche in questo caso stiamo parlando di qualcosa che tenderà a deperirsi con l’andare del tempo. Ma se anche solo poche istituzioni riusciranno a fare qualcosa del genere, potremmo preservare nel tempo una capacità di comprensione dei software e della loro complessità che nessun tipo di emulazione potrà mai restituire nella sua interezza”.

Leggi i due interventi:

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