America, tempo scaduto per il "top secret by default"?

Sul Washington Post una presa di posizione contro un sistema di classificazione nazionale ritenuto ormai obsoleto. Problema numero uno, la tendenza a classificare eccessivamente, a discapito dei principi di trasparenza e libero accesso alle informazioni di interesse generale

Come dovrebbe essere ripensato il concetto di “top secret” nell’era di Internet? Alla domanda ha provato a rispondere Dianne Feinstein, vice chairman del Senate Select Committee on Intelligence degli Stati Uniti, con una riflessione pubblicata sul Washington Post. Stando agli ultimi dati forniti dall’Information Security Oversight Office, la struttura che supervisiona il modo in cui le amministrazioni americane classificano i documenti, nel 50% dei casi queste attività vengono svolte in maniera erronea, percentuale che sale addirittura al 70% in alcune agenzie. “Se anche i professionisti più navigati in materia di sicurezza sbagliano ripetutamente - scrive la Feinstein commentando i dati - vuol dire che l’intero sistema non funziona più, e questo perché non è ancora stato aggiornato all’era digitale”.

Secondo l’esperta, il primo grande problema all'origine di simili dati consiste nell'incredibile sovraffollamento di manuali per gli addetti ai lavori. Il già citato Information Security Oversight Office ne ha censiti addirittura 3.000, 2.000 dei quali in uso presso il solo Dipartimento della Difesa. Il risultato è che i professionisti finiscono per fare riferimento a dei “patchwork di manuali” quando devono decidere se secretare o meno le informazioni. E da questo eccesso di regolazione deriva  una estrema confusione nella definizione dei vari criteri e livelli di accesso. Le tipologie di classificazione  ei gradi di permesso sono talmente tanti che spesso persone in teoria autorizzate ad avere gli stessi livelli di accesso alle informazioni finiscono per consultare contenuti profondamente diversi tra loro.

Tutto ciò non fa che accrescere tanto i casi di “sotto-classificazione”, esponendo gli Stati Uniti al rischio che potenziali nemici entrino in possesso di dati cui non dovrebbero poter accedere, quanto quelli di “sovra-classificazione”, creando eccessive e ingiustificate restrizioni all’accesso alle informazioni. Secondo la Feinstein, dei due è più frequente imbattersi in questo secondo tipo di rischio, anche perché  se esistono sanzioni precise per gli addetti ai lavori che “sotto-classificano” i documenti, per i casi di “sovra-classificazione” le regole sono molto meno stringenti e severe.

“Sovra-classificare” però è una attività che l’esperta ritiene negativa almeno per 3 ordini di motivi. Innanzitutto, può inibire la circolazione di informazioni di rilevanza strategica, talvolta anche per le finalità la sicurezza nazionale, come accaduto ad esempio dopo l’11 settembre, quando si definirono delle restrizioni di accesso talmente elevate da complicare estremamente il lavoro di indagine delle agenzie di intelligence. Un altro aspetto fondamentale è che se i documenti sono inaccessibili per troppe persone, e magari anche per troppo tempo, vengono meno quei requisiti minimi di trasparenza che sarebbero necessari per permettere all’opinione pubblica di controllare con la dovuta cognizione di causa l’operato dei propri rappresentanti. Last but not least, “sovra-classificare” costa sempre più: qualcosa come 15 miliardi di dollari annui, circa 5 volte di più rispetto a 20 anni fa.

Denunciando questo stato dell’arte, la Feinstein propone alcune ricette per migliorarlo. Il primo auspicio è che il nuovo direttore dei servizi di intelligence riduca il numero degli addetti ai lavori, promuovendo al contempo iniziative per l’accrescimento delle loro competenze, e magari riesca a imporre a tutti un solo manuale di riferimento. Ma tutto questo a suo avviso non può bastare: bisogna attivarsi, creando anche una consistente domanda dell’opinione pubblica, per semplificare radicalmente il sistema e renderlo meno orientato alla “sovra-classificazione”. “Il ‘top secret’ non può più essere la regola di default - si legge nell’articolo - è tempo che la norma divenga il ‘non classificato’, con le dovute autorizzazioni ad agire diversamente quando le circostanze lo richiedono. Ad esempio, la durata standard di classificazione di un documento è di 25 anni, ma solo la minima parte che contiene informazioni estremamente sensibili richie ormai un simile lasso di tempo. Abbassarla a 5 o 10 anni potrebbe essere congruo per diverse agenzie”.

La Feinstein annovera anche la tecnologia tra i potenziali attuali. Per alcune attività di routine, gli algoritmi sono ormai molto più efficaci delle persone. La sua testi quindi è che automatizzando alcuni aspetti del lavoro di declassificazione, non solo si commetterebbero meno errori, ma permetterebbe ai professionisti dell’intelligence di fare più e meglio il loro vero lavoro, che rimane quello di fornire informazioni e analisi di ottima qualità ai decisori. L’esperta invoca infine anche maggiori poteri per organismi come il National Declassification Center e il DNI’s Intelligence Transparency Council, creati proprio con lo scopo di accelerare i processi di revisione e declassificazione dei documenti negli interessi dell’opinione pubblica. “Non riusciremo mai a eliminare del tutto la tendenza a ‘sovra-classificare’ le informazioni - conclude la Feinstein - ma se adottassimo queste soluzioni potremmo cominciare a cambiare le dinamiche attuali. Al cuore di tutto questo sistema ci sono professionisti sinceramente impegnati nel tentativo di fare la cosa migliore, ed è ovvio che da parte loro vi sia una istintiva attitudine a proteggere i segreti. Classificare però dovrebbe servire a proteggerli, non a seppellirli per sempre”.

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