“Archivisti e fan insieme per salvare la memoria di Internet”

Altro che distinzione tra cultura alta e cultura bassa: secondo lo studio Henry Jenkins, intervistato da The Signal, le community on line e le istituzioni della conservazione devono lavorare fianco a fianco per preservare dall’oblio la produzione culturale dei nostri giorni

Ve la immaginate una riscrittura collettiva on line di Moby Dick, con Ismaele e Achab a bordo del Pequod nei giorni nostri a caccia di stupefacenti anziché di balene? E Orgoglio e Pregiudizio “tradotto” su Facebook e Twitter: sai che gossip sfrenato a sviscerare le intricate vicende della famiglia Bennet? Ora smettete di immaginare, e sappiate che iniziative come questa sono il pane quotidiano per una serie di accademici ed esperti che vedono in Henry Jenkins un vero e proprio faro. Spiegare in due righe chi sia Jenkins è impresa davvero ardua. Proviamo a cavarcela dicendo che ha scritto pilastri della letteratura sociologica contemporanea come Cultura convergente, e che molto probabilmente si tratta dello studioso più influente al mondo per tutto ciò che attiene a come le community on line abbiano cavalcato l’onda lunghissima di Internet per terremotare la comunicazione contemporanea. Per una presentazione molto più professionale ed esaustiva, rimandiamo invece al blog The Signal della Library of Congress, che ha intervistato Jenkins di recente, alimentando così la propria “serie” sul folk digitale e le problematiche relative alla conservazione di quanto viene prodotto e condiviso in maniera spontanea e virale on line (qui, qui e qui gli episodi che abbiamo segnalato nei mesi e nelle settimane scorse).

Spontanea sì – affermerebbe Jenkins se mai gli capitasse di leggere queste righe – ma virale mica tanto. Una delle sue principali convinzioni infatti, è che questo termine sia assolutamente inadatto per spiegare il modo in cui funziona la cultura partecipativa, e in particolare le azioni dei milioni appassionati che alimentano le community on line. Secondo Jenkins, i fan rispondono solo ed esclusivamente alle proprie inclinazioni piuttosto che a improbabili contagi virali. Mentre la metafora biologica sarebbe tirata in ballo soprattutto da chi, come i media tradizionali, è in cerca di improbabili ricette per illudersi di poter ancora condurre le danze. Chi era abituato a diffondere contenuti e orientare tendenze nell’era del broadcasting – è il succo del suo ragionamento – confida nell’esistenza di formule magiche per continuare a esercitare questo potere anche ora che tutti hanno una propria finestra sul mondo per dire la propria. Ma non è più così che funziona – sostiene Jenkins – è chiunque non se ne farà una ragione sarà destinato al silenzio e all’oblio.

Non a caso il motto che da sempre ama ripetere è “If it doesn’t spread, it’s dead”: “se non è condiviso è spacciato”, ed è un motto che anche musei, biblioteche, archivi e altre istituzioni della conservazione dovrebbero a suo avviso mandare a memoria. Non esiste una distinzione tra cultura alta e cultura bassa – ammonisce Jenkins – e più ci si ostinerà a non capirlo, più si rischierà di non preservare nel tempo quanto di effervescente e vivace viene prodotto e condiviso in questa nuova era dal remix e del crowdsourcing. I media e le istituzioni culturali devono perciò andare a sporcarsi le mani “laddove le conversazioni accadono”, mettendo a disposizione la propria autorevolezza e competenza nei confronti di chi ha un’altissima capacità di produrre e condividere contenuti, ma è molto meno in grado di selezionarli, catalogarli e preservarli dall’oblio.

“Archivisti, bibliotecari e operatori museali non avranno mai più il potere che hanno avuto in passato di decidere cosa conti a livello culturale e cosa no, e quindi non merita di essere tramandato – spiega Jenkins – questa responsabilità sarà sempre più condivisa con le comunità spontanee attive sui social media. Oggi ci sono video che raggiungono livelli di popolarità incredibili senza passare dai canali tradizionali. Kony 2012 – ad esempio – è stato visto da 100 milioni di persone in una sola settimana dalla sua pubblicazione on line; non è circolato su nessun canale broadcast, ma in quella settimana ha demolito Hunger Games, un film pensato per sbancare il botteghino, e Modern Family, la serie tv più popolare d’America.

Come minimo, questo significa che gli archivisti dovranno fare i conti con nuovi distributori di contenuti, i musei dovranno pensare a criteri finora inediti per l’attribuzione di meriti artistici, e le biblioteche potrebbero avere la necessità di lavorare gomito a gomito con le community on line, per capire quali saranno i loro interessi informativi sul medio e lungo periodo. Ciò non vuol dire che bisogna abbandonare le proprie competenze e capacità di valutazione, ma senz’altro occorrerà prendere coscienza dei propri pregiudizi su cosa conti o meno a livello culturale, e familiarizzare con tendenze come il crowdsourcing, e forse anche il crowdfunding, per assecondare meglio gli interessi dei propri pubblici”.

E rimanendo in tema di contaminazione, si torna alle strane suggestioni citate in apertura. Progetti come la riscrittura e riattualizzazione su Wikipedia di Moby Dick e i “The Lizzie Bennett Diaries”, vera e propria soap opera on line ispirata all’opera più famosa di di Jane Austen, sono secondo Jenkins un validissimo tentativo per avvicinare le nuove generazioni ai capolavori del passato e salvarli dall’oblio. Altro che svilimento di una presunta cultura alta – è la sua tesi – qui si è in presenza di una manipolazione creativa che infonde linfa e calore in contenuti che rimarranno attuali solo se si smetterà di relegarli come reliquie nelle teche e negli scaffali, e si penserà ad essi come materia viva per la produzione di nuove narrazioni.

“Mi piacerebbe tanto – afferma Jenkins – se le biblioteche e i musei incoraggiassero i propri pubblici a riscrivere e remixare queste opere, a immaginare nuovi modi per attualizzarli e divulgarli, per renderli nuovamente una parte vitale della nostra cultura.

Col suo lavoro “Highbrow/Lowbrow” Lawrence Levine ha mostrato i contrasti tra il modo di maneggiare l’opera di Shakespeare nel 19esimo secolo – quando era considerata una parte fondamentale della cultura popolare – e quello che si è cominciato a fare nel 20esimo secolo, quando si è cominciato a sostenere che per apprezzare il Bardo fosse necessario avere specifiche conoscenze culturali e un determinato background letterario. Forse è giunto il momento di riportare indietro le lancette della storia, puntando nuovamente su una forte connessione emotiva e popolare nei confronti di queste opere”.

Per riuscirci  - conclude Jenkins – bisogna aiutare i bibliotecari, gli archivisti e i curatori museali “ad uscire allo scoperto”: “è ora che ammettano di essere a loro volta dei fan appassionati, e condividano quanto appreso nel corso delle proprie esperienze lavorative, con le vaste comunità di fan che animano e danno forma alla rete”.

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